UNA PER UNO

UNA PER UNO
babbucce

giovedì 22 ottobre 2015

LA "M" SCARLATTA

Cercava da tempo una scusa per assalirlo. Non per ferocia, non per una peculiare antipatia nei suoi confronti, ma solo perché non aveva capito cosa fosse esattamente così piccolo e grassoccio e profumato di latte e di triderm e quindi si era fatto l’idea che fosse una preda. Una di quelle prede che il suo dna di cacciatore  gli suggeriva di afferrare e magari mettere al sicuro nella sua tana (l’ultimo scaffale della Libreria dello Studio).
Quello che gli serviva era una scusa valida per giustificare la sua aggressione: se non capiva infatti cosa esattamente fosse quella cosa piena di ciccia dal profumino invitante aveva confusamente compreso che gli Umani ci tenevano a lei. 
Per un anno rimuginò sulla faccenda, pianificando una strategia d’attacco e cercando un pretesto per attuarla. Ma il pretesto tardava a palesarsi. La cosa grassoccia cresceva e iniziava pure a spostarsi traballante per casa, festosa, volonterosa, tutta sorrisi e gridolini. Lo guardava e rideva forte e chiaro di felicità. Mai e poi mai si sarebbe protesa verso di lui per tirargli la coda o ficcargli un legnetto in un occhio: questo era evidente. La preda non era bellicosa e lo osservava con rispettosa curiosità, senza mai avvicinarsi troppo e sempre guardata a vista da almeno un paio di Umani alla volta. Lui però non abbandonava l’intento: quella preda esercitava su di lui un’attrazione violenta, doveva afferrarla, assaggiarla, trascinarla nella sua tana. E poco importava se ormai, con il passare dei mesi, fosse quasi triplicata di peso e avesse raggiunto i 12 chili, quattro più di lui, ma pazienza: non era forse vero che gli umani cacciavano gli elefanti senza fare tante storie di dimensioni. E l’idea, da cui originò il pretesto tanto atteso, arrivò e si accese nella sua testa di cacciatore come la lampadina dei cartoni animati. Prese la sua amata oca morta di gomma e la mise nel cesto dei giocattoli della sua preda. E quando la preda traballante si chinò sul cesto per afferrare la palla lui sbucò fuori dall’angolo in cui ansimante (ma piano) e immobile attendeva. Spiccò un salto da gatto, nonostante fosse un cane, un bassotto per di più con lunga colonna vertebrale e corte zampe poco adatte alle grandi elevazioni e si attaccò coi denti alla pancia della preda. Eravamo presenti in tre: io, Figlia e Genero Preferito. Abbiamo urlato forte mentre Nipotino piangeva, più di sorpresa e di delusione che di vero dolore perché il pannolino e la maglietta un po’ lo proteggevano dai denti di Gino. <<No!!! Gino nooooo!!!>> gridavamo tutti, ma lui niente. L’aveva presa la sua preda grassoccia ed era ben deciso a non mollare e a trascinarla nella sua tana. Il panico. Lo strattone violento dato a Gino per costringerlo a lasciare andare Nipotino. Poi la verifica del danno: sì c’era del sangue sul pancino, sì ci sarebbe stato bisogno di antibiotico e di medicazioni. Gino si era macchiato della peggiore tra le colpe: aveva morso il piccolo Umano, nella casa degli Uomini che lo ospitavano. Con un’ideale eppure vistosa M scarlatta sulla schiena Gino si ingobbì e sparì nella sua cuccia, senza più farsi vedere per il resto della giornata. Ma ormai il latte era stato versato ed era inutile che piangesse. Figlia non lo avrebbe perdonato mai, per tutta la vita e anche oltre. Genero Preferito, grande cinofilo, cercava una spiegazione razionale all’accaduto. Nonno Putativo (assente durante la tragedia) ha dato tutta la colpa a me che non so educare nessuno, neanche un pesce rosso. Io, be’, io ero disperata per Nipotino con la pancia sanguinante, per Figlia arrabbiata per sempre, per l’irragionevolezza di Nonno Putativo che aveva dato la colpa a me di tutto (e solo parzialmente agli altri due presenti). Sono passati tre anni da allora. Nipotino ricorda perfettamente quanto successo perché abbiamo iniziato a raccontarglielo per metterlo in guardia dalla tentazione, in lui fortissima, di fidarsi di qualunque cane veda. E la storia gli piace molto, lo fa sentire un po’ eroe. Ogni giorno quando entra a casa mia chiede, così per documentazione, lontano da ogni rancore, senza alcuna paura:
<<C’è Gino in giro? Gino mi ha morso la pancia. Vero nonna? Mi racconti?>>.
Ma Gino è nella sua tana. Ci va da solo quando sente sulle scale la voce di Nipotino. Ci va da solo brontolando a denti stretti, orgoglioso com’è e restio a dare soddisfazione, mostrando ragionevolezza. E’ un esilio volontario che ha scelto dopo essersi reso colpevole del peggiore tra i delitti canini. Non ha più incontrato Nipotino da allora, non viso a viso. Quando Nipotino è in casa lui non esce dalla sua cuccia che si trova nella Libreria del mio studio. Da qualche giorno qualche volta entro nella stanza dove lui è rintanato con Nipotino in braccio, così giusto per saggiare il terreno, per capire se un giorno chissà quando il mio bassotto e il mio nipotino potranno incontrarsi ancora senza che il secondo corra rischi per via del primo.
Gino quando entriamo trema tutto, con la sua M di “mordace” scarlatta sulla schiena, e muove debolmente la coda. Sono quasi sicura che voglia dire: <<Non lo farò più, non lo farei mai più>>, ma vatti a fidare.     
                                         

7 commenti:

  1. povero Gino ... che tenerezza, si autoflagella da tre anni ...

    RispondiElimina
  2. "Perbacco che racconti che mi fai !", (dice Umberto :-) )

    RispondiElimina
  3. povero gino, sì.
    ma vatti a fidare.
    noi con googhi abbiamo rischiato, e gogghi è tipo...bè 6 volte gino.
    Voglio bene a entrambi, ma li tengo a distanza, e all'occhio.
    Non mi fido, no. Soprattutto di Nina.


    Susibita

    RispondiElimina